martedì 11 gennaio 2011

L’Italia che pedala pericolosamente - Paolo Rumiz

Vale la pena leggere queste righe scritte da Paolo Rumiz (mi son permesso di evidenziare alcuni passaggi che ritengo importanti).

“In 40 anni di bicicletta mi hanno insultato, deriso, disprezzato, preso a sportellate nei denti, bagnato come un mendicante, urtato di fianco e di coda, sfiorato in incroci senza precedenza, atterrato su ogni tipo di pavé e di asfalto, guardato come un miserabile pitocco. La bici con le sacche, che schifo. Mi raccomando, non la lasci nel sottoscala, ne va del decoro. Ho subìto tutto questo ed altro ancora nella mia vita su due ruote, e certamente ho rischiato di più sulle strade di casa mia che arrampicando sulle pareti delle Alpi. Avrei potuto finire cento volte sotto un Suv, saltare in aria tipo birillo, come i sette falciati da un pazzo sulle strade della Calabria.

Non ti guardano, non ti vedono. Non ti considerano una persona. Sei una bici, non un uomo, una donna e un bambino che va. Un bersaglio nel parabrezza. Un gioco della playstation a destra della mezzeria. Loro non ti sentono, hanno musica nell’abitacolo, telefonano, sono sigillati con l’aria condizionata, e poi c’è anche il motore che non fa rumore, non dice loro che vanno oltre il limite. L’elettronica li rende senza peso, massa inerziale; nasconde che il motore è un’arma e la patente un porto d’armi. E nemmeno tu li senti arrivare, perché oggi le macchine sono cose carenate e silenziose come ghepardi nella savana. Arrivano da dietro, a tradimento.

Guillaume Prébois, che si è allenato sulle strade italiane e ha fatto il giro del mondo sul sellino, mi ha insegnato i trucchi per non soccombere nella corrida. Primo, non stare troppo sul margine, a subire il traffico sul filo dei vetri e dei rifiuti, ma a un terzo della carreggiata per obbligare i gommati a rallentare. Secondo, girarsi e guardarli; con quello sguardo ridiventi una persona e loro ti superano con più margine. Funziona sempre. Terzo, sputare sulla sinistra o, in casi estremi, smoccolare nella stessa direzione otturandosi la narice destra. È infallibile con gli arroganti con grosse cilindrate che rombano. Non gliene frega nulla di te, ma della loro carrozzeria sì, così ti girano al largo. Ma a volte non basta a sopravvivere.

La strada italiana è diventata un campo di battaglia e chi non ha la grossa cilindrata soccombe. Macchine sempre più potenti, fretta e frustrazione in aumento, insofferenza per chi va piano. Ed è verosimile che i pendolari immersi tre ore al giorno nell’ossido di carbonio non siano teneri con chi si ostina a usare un mezzo pulito e rivendicare il diritto alla lentezza. È uno scontro culturale prima che urbanistico: la bici è vista un intralcio al traffico non la base per decongestionarlo. Aveva ragione Ivan Illich in quel geniale testo di economia che è “Elogio della bicicletta”. C’è una guerra civile in corso tra il mondo ad alta energia e bassa comunicazione interpersonale, e il suo opposto.

È sempre peggio: le statistiche che vantano la diminuzione degli incidenti stradali sono un bluff perché riguardano solo gli automobilisti. Per pedoni e ciclisti il numero dei morti è costante, se non in aumento, e di questo non si parla. Nella terra della bici, l’Emilia e Romagna, tra pedoni e pedalatori hai un morto al mese per provincia, in posti come Ferrara, Parma e Reggio Emilia che non sono un Far West. Se poi, mi ha rivelato Claudio Pedroni della Federazione amici bicicletta, depuri il dato dagli incidenti in autostrada e quelli del sabato sera dove le bici sono assenti e il traffico a piedi pure, scopri che i ciclisti e i pedoni falciati in situazioni normali sono il cinquanta per cento e non il quindici come si afferma. Ma anche di questo non si parla.

Una delle cose più fenomenali è la faccia ebete di quelli che ti spalancano la portiera e anziché chiedere scusa dicono con gli occhi: ma tu che ci fai qui. E che dire dei taxi: un giorno ne presi uno alla stazione di Padova per entrare nelle stradine a traffico limitato, e subito l’autista cominciò a rivendicare il suo spazio accelerando contro le biciclette degli studenti, apposta per spaventarli. “Non ne posso più di loro – disse – occupano tutta la strada, anche contromano”. Risposi chiedendogli se aveva un’idea del motivo per cui prendevo il suo taxi. “No”, disse. Lo prendo, risposi, perché non ho automobile. E per lo stesso motivo, vede, sono uno che usa la bicicletta. Dunque, conclusi, la mia corsa finisce qui. Uscii a piedi, e lui non osò replicare.

Il padano Pedroni, compagno di gite e battaglie, una sera di pioggia fu stretto contro il muro da un’automobile e lui, che pedalava all’antica con l’ombrello aperto, prese a ombrellate la tettoia per avvertire lo sciagurato nell’abitacolo. Quello aprì il finestrino e disse con commiserazione: “Ma quand’è che sparite voialtri?”. Ho sempre sperato che qualcuno in alto decidesse per una campagna di civiltà, per avvicinare l’Italia alla Francia o alla Germania, dove i ciclisti sono addirittura i benvenuti negli alberghi e nei ristoranti. Quando il ciclista Romano Prodi è diventato capo del governo e poi commissario Ue ho esultato. Adesso, ho detto, si farà qualcosa. E invece niente. Il progetto Eurovelo non l’ha nemmeno guardato.

Fuori è un inferno. Persino le grandi squadre da corsa – mi dice Albano Marcarini, paladino della Mobilità dolce – non sanno più dove allenarsi e sono costrette ad andare all’estero. L’ex vincitore del Tour, il bergamasco Felice Gimondi, ha smesso correre per strada e si è dedicato alla mountain bike. E ora la follia contagia anche i ciclisti estremi, che trasferiscono sulla bici l’aggressività dell’automobile. Sui tornanti dell’Etna un matto mi bestemmiò in catanese perché non lo lasciavo passare. Nella Lucchesia ho visto squadre di domenicali in tutine da primadonna farsi strada a ingiurie nel traffico. E giù dal Monte di Nese, in Val Seriana, un assatanato mi è sbucato in curva contromano a settanta orari, in discesa, telefonando con la morosa.

Certo, ci sono dei forsennati anche sulle due ruote. Per questo tengo a precisare che non sono un ciclista ma viaggiatore con la bicicletta. E poiché mi rifiuto di contrapporre alla velocità nient’altro che la lentezza, oltre alla commiserazione dei gommati devo subire anche quella dei pedalatori su telai al carbonio. Scusate se mi ostino a rivendicare il mio diritto all’uso della strada. Un diritto che pochi rivendicano. All’estero gli italiani li riconosci da una cosa: sono gli unici che ringraziano se li lasci passare sulle strisce pedonali. Il motivo è che sembra loro impossibile che tu riconosca quel diritto. Forse non sanno nemmeno di averlo. Abbiamo ancora tanta strada da fare.

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